Artisti sulle vie del Giubileo:  il “Corpus Hypercubicus” di Salvador Dalí
A pochi giorni dalla chiusura del Giubileo Straordinario della Misericordia, come atto finale per la nostra rivista culturale “Artisti sulle vie del Giubileo”, abbiamo intervistato Josè Dalì, figlio del genio del Surrealismo Salvador Dalì, in merito ad un capolavoro di suo padre, oggi custodito nel Metropolitan Museum of Art di New York: il “Corpus Hypercubicus”.L’ arcano dipinto, realizzato nel 1954, rappresenta una Crocifissione di Cristo in una quarta dimensione, quasi a voler dimostrare l’esistenza di una nuova vita ultraterrena. In una atmosfera magica, ai piedi di Gesù, appoggiato ma non inchiodato alla Croce nucleare, troviamo la figura della Madonna, che verosimilmente lascia intravedere il volto di Gaia, la sua adorata moglie.Chiediamo a Josè di spiegare ai nostri lettori il senso e il valore di questa sensazionale opera nel percorso pittorico di Salvador Dalì.
“Quando mio padre era ancora intento a dipingere questo suo capolavoro di 124 x 194 cm. denominato” Corpus hypercubicus”, io avevo circa quattordici anni e, malgrado la zona che delimitava il suo studio facente parte della casa, fosse circoscritta ai non addetti ai lavori, le mie brevissime osservazioni “furtive” e non autorizzate, non mi lasciarono indifferente. E certo non mi sarei davvero immaginato allora, di trovarmi a disquisire oggi, a distanza di tanto tempo, su quello che i miei occhi infantili vedevano come un gioco magico e a volte miracoloso, scaturire dalle sapienti mani di mio padre. In realtà, nei brevi, saltuari istanti di frequentazione familiare, quando i miei tutori, approfittando della presenza in Europa dei miei impegnatissimi genitori in occasione di alcune feste comandate, mi “ricollocavano”  in famiglia, ero distratto da tutt’altri impegni più consoni ad un ragazzino della mia età. Quindi, osservavo quella miriade di fulgidi colori, assemblati magistralmente su tele di ogni dimensione, come uno spettacolo di fuochi d’artificio. Comunque, l’opera in questione, ora collocata in buona compagnia con la collezione di Chester Dale, finanziere di New York, presso il Metropolitan Museum of Art di New York, assieme al “Cristo del San Giovanni della Croce” del 1951, fa parte di una serie opere “religiose” scaturite dalla infinita creatività di Dalì, che da circa un decennio,  aveva abbandonato temporaneamente la poetica surrealista per il “corno di rinoceronte”, per il “misticismo nucleare” (la cosiddetta pittura nucleare) e per la “forma cubica”. Ma alla luce di quello, che indipendentemente dalla genialità del mio genitore, è stato il percorso intimo e privato della mia famiglia, credo di poter definire tale opera, a dispetto di qualsiasi ovvia e immediata  apparenza “un vero e proprio monumento alla forza magica, prepotente  e irresistibile dell’amore”.

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L’amore per la bellezza estetica di ogni natura, l’amore per la gioia di vivere, l’amore per la follia moderata dell’incoscienza e soprattutto l’amore infinito tra due esseri che si incontrano per restare assieme in eterno. In un certo qual senso, ogni opera impegnativa di mio padre, altro non era che un omaggio e una reiterata dichiarazione d’amore nei confronti della sua amata.Diversamente da ogni fantasmagorica espressione pittorica di quel Surrealismo, che lo ha reso famoso per la sua geniale stravaganza, mio padre riteneva, a ragione, la pittura solo una parte infinitesimale della sua fervida capacità di produrre in ogni campo, qualcosa di veramente ingegnoso e originale con cui esercitarsi a sorprendere mirabilmente il pubblico infinito dei suoi ammiratori. Dalì, trova nella sua imponente rassegna di immagini a sfondo religioso, il compendio di un esercizio continuo nel suo mirabile percorso, proteso alla spasmodica ricerca della perfezione artistica e tecnica, attraverso il supporto misterioso della fede. A me, piace leggerlo in questo modo, l’ipotetico messaggio insito e piuttosto evidente di questa opera del grande artista universale, già da tempo all’apice del suo successo, offrire nel fiore dei suoi cinquant’anni, anche allo spettatore più distratto, una velata confessione confidenziale: “senza la suprema forza della fede e dell’amore a poco o a niente possono servire le migliori qualità”. E tutto nettamente in contrasto a quanto decretato a suo tempo da André Breton : “prima del surrealismo era possibile intuire l’intensità luminosa soltanto da certe infiltrazioni cui non si fa caso, come le frasi cosiddette “del dormiveglia” o ” del risveglio”. L’atto decisivo del surrealismo è stato di rendere evidente la loro continuità di svolgimento”.